I matrimoni fra i brand automobilistici non sempre funzionano ma per fortuna le eccezioni non mancano: quali sono i motivi del successo?
L'armonia di coppia non è facile da raggiungere quando si è in due, figuriamoci quando ad unirsi sono organizzazioni con migliaia di addetti da integrare e decine di dirigenti che, comprensibilmente, non vedono di buon occhio l'arrivo di altre figure apicali. È anche per questo motivo che, se gli attori del merge sono le industrie automobilistiche, le cose possono essere molto difficili.
IL VALZER DELLE COPPIE – Una verifica a posteriori sull'esito delle unioni avvalora l'ipotesi che le fusioni dei brand automotive siano piuttosto difficoltose: basterà ricordare gli accordi fra Daimler e Chrysler oppure Rover che prima ha avuto un accordo tecnico industriale con Honda e poi è convolata a nozze con BMW senza che nessuna di queste unioni durasse nel tempo; anche Suzuki ha una storia simile, prima con General Motors e poi con Volkswagen. Non mancano poi esempi di unioni a tempo, come quella che ha visto Ford e Mazda separarsi dopo parecchi anni di un rapporto che ha avuto comunque lati positivi per entrambi i partner. Decisamente più breve e molto meno soddisfacente, per usare un eufemismo, è stato il rapporto fra Fiat e General Motors: celebrato nel 2000, si è sciolto nel 2005 (GM, pur di uscire, ha pagato una penale di 2 miliardi di dollari) e ha prodotto poco più di una condivisione di powertrain. Il Marchionne-pensiero (leggi le sue dichiarazioni), lo sappiamo bene, è che i costruttori di automobili stanno bruciando enormi quantità di capitale per un ritorno troppo esiguo; in aggiunta, l'AD di FCA afferma come sia uno spreco che esistano dozzine di pianali e powertrain differenti le cui combinazioni generano modelli molto simili, le cui piccole differenze sono inoltre scarsamente percepite dei clienti.
PROBLEMA O OPPORTUNITÀ MASCHERATA? – In realtà alcune fusioni hanno bruciato moltissimo denaro, come quella fra il Gruppo Daimler e Chrysler. Il brand americano, valutato 36 miliardi di dollari all'epoca dell'alleanza, aveva perso quasi tutto il suo valore nel 2007, quando la partnership finì. Fra le cause del flop gli analisti hanno indicato la scarsissima condivisioni di piattaforme e motori (Daimler non voleva essere “contaminata” da componenti Chrysler), boards che si guardavano in cagnesco – come quello di Rover, che si è visto colonizzato da quello di BMW – e la falsità del concetto di un merger of equals, fragorosamente smentita dal CEO Juergen Schrempp che ammise trattarsi di un'acquisizione vera e propria. Schrempp, del resto, si è visto ben poco oltreoceano e, a peggiorare il pasticcio, i manager tedeschi hanno saputo di essere pagati meno di americani di “rango” inferiore. Per sollevarci il morale, pensiamo ora ai matrimoni che funzionano, ad esempio quello fra Renault e Nissan, che ha quasi due decenni di vita (leggi i piani dell'alleanza per l'India) oppure al successo del brand Mini sotto la guida di BMW o, ancora, ai buoni risultati di FCA.
EPPUR SI MUOVONO – Qualche tratto comune in questi esempi lo si può trovare, ad esempio nel fatto che queste alleanze (i comunicati stampa del gruppo franco-nipponico, in effetti, citano sempre la frase “Reanult Nissan alliance) non presentano sovrapposizioni molto grandi, in contraddizione con l'idea di Marchionne. In realtà, rimanendo nel campo di Renault-Nissan, scambi di powertrain e motori ce ne sono a bizzeffe ma le immagini dei marchi – e, in misura non trascurabile, anche i management – rimangono ben distinti. Se gli overlap sono eccessivi, in nome di esasperate economie di scala, il rischio è quello di scatenare guerre interne di sopravvivenza. Anche la distanza geografica sembra essere un fattore comune, con FCA che ha i “nuclei” fondanti ben separati: uno in Nordamerica e l'altro in Italia, con impianti e maestranze distinti e separati come lo sono anche i quartier generali di Ford e Mazdae Renault e Peugeot. Le alleanze franco-giapponese e italo-americana sono accomunate anche da una leadership forte e molto motivata verso la partnership: Marchionne è molto presente a Auburn Hills, prendendo in carico personalmente Chrysler e anche Ghosn non si è certamente risparmiato nell'ideare, concretizzare e gestire Renault-Nissan, chiedendo la cooperazione di tutti – ma senza ruoli subalterni – e rispettando le specificità di entrambi i brand. Un altro tratto comune è il fatto che uno dei due partner sia in grandi difficoltà: la “gratitudine” di Nissan, Mazda e Chrysler ha sicuramente facilitato rispettivamente il compito di Renault, Ford e Fiat. Concludendo: l'idea di Marchionne ha un suo fondamento ma gli accadimenti degli ultimi decenni suggeriscono molta prudenza per evitare effetti contrari a quanto voluto.